Ecclesia

I 50 anni di sacerdozio di mons. Ligorio “Ho sperimentato la misericordia di Dio”

13 Lug 2022

di Silvano Trevisani

Monsignor Salvatore Ligorio, arcivescovo metropolitana di Potenza – Muro Lucano-Marsico Nuovo ha festeggiato il 50° anniversario di sacerdozio in quella Chiesa del Carmine di Grottaglie che vide nascere e crescere la sua vocazione. In una comunità particolarmente viva dalla quale scaturirono, sotto la guida del “mitico” don Dario Palmisano (succeduto a don Francesco Marinò), affiancato da don Cosimo Occhibianco, diverse vocazioni sacerdotali e dalla quale le vocazioni continuano a scaturire copiose ancora oggi. In una concelebrazione cui, oltre al parroco don Ciro Santopietro e al vicario generale monsignor Alessandro Greco, che con Ligorio condivide la ricorrenza (assieme a monsignor Antonio Caforio anche lui presente) vi erano numerosi sacerdoti, molti dei quali grottagliesi, a cominciare da don Franco Bonfrate, che con lui condivise gli anni della formazione al Carmine.

Monsignor Ligorio è nato a Grottaglie, il 13 ottobre 1948. Ha compiuto gli studi nel seminario minore di Taranto, in quello pontificio regionale di Molfetta e presso la pontificia Università lateranense, conseguendo la licenza in Teologia pastorale. È stato ordinato sacerdote il 13 luglio 1972. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha ricoperto vari incarichi tra cui quello di rettore del seminario arcivescovile di Martina Franca, di canonico del Capitolo metropolitano di Taranto, vicario zonale di Grottaglie e membro di diritto del Consiglio presbiterale; membro del Collegio dei consultori. A partire dal 1984 è stato parroco della “Madonna delle Grazie”, distintosi per dedizione e accoglienza.

Primo sacerdote della diocesi di Taranto a diventare vescovo dopo un “buco” durato ben 45 anni, ha ricevuto la consacrazione episcopale l’11 febbraio del 1998, nella concattedrale Gran Madre di Dio, dalle mani dell’arcivescovo di Taranto Benigno Luigi Papa. Ha fatto ingresso in Tricarico il 1° marzo 1998. Dopo soli sei anni, il 20 marzo 2004 è stato promosso alla sede arcivescovile di Matera-Irsina. Sotto il suo governo, dopo alcuni anni di organizzazione e allestimento, il 16 aprile 2011, viene inaugurato, per sua volontà, il Museo diocesano di Matera, per la conservazione e la valorizzazione delle opere d’arte e degli oggetti liturgici più rilevanti provenienti dalla Cattedrale e da altre chiese del territorio diocesano.

Il 5 ottobre 2015 è stato nominato arcivescovo metropolitana di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo. Sotto la sua guida, inoltre, si sono conclusi i lavori di restauro della Cattedrale di Matera, dedicata a Maria Santissima della Bruna, inaugurati l’11 marzo 2016, che si erano resi necessari nel 2003, dopo il cedimento di due navate che avevano comportato la sua chiusura.

A monsignor Ligorio, che per chi scrive, cresciuto e formatosi nella stessa parrocchia, è stato un punto di riferimento, abbiamo rivolto alcune domande.

Sono trascorsi cinquant’anni dall’ordinazione sacerdotale. Che ricordo hai e come vedi lo sviluppo della tua vocazione in questi anni?

Del mio percorso sottolineo soprattutto la misericordia di Dio, che ha sempre avuto fiducia, nonostante la mia fragilità umana, e questo mi conforta a rispondere con più generosità ogni giorno a questa chiamata. Coi primi entusiasmi, sembrava che il mondo lo tenessi in mano, poi col tempo mi sono accorto che io sono il mondo e mi sono anche accordo di essere un po’ “discolo” in questa Terra, benché essenziale perché voluto e amato dal Signore che mi affida, nonostante tutto, una missione nella Chiesa. A quella missione ho sempre sentito che deve corrispondere un annuncio vero del Vangelo, perché la dignità dell’uomo sia sempre più messa in risalto, e in cui l’umanità si mostri capace di vivere i suoi valori di verità, di giustizia, di pace e di carità; e penso che ognuno di noi deve dare il proprio contributo nel suo piccolo, lodando il nome del Signore.

Negli anni in cui hai vissuto la vocazione e poi hai ricevuto l’ordinazione, vi era ancora una forte eco del Concilio Ecumenico Vaticano II. Ma questo fermento si è poi sviluppato all’interno della Chiesa? Che cosa bisogna ancora recuperare di quel lievito così da indurre il Santo Padre a indire un sinodo universale?

Sì, effettivamente allora c’era un fermento e in quel tempo ciò che era bianco era bianco e ciò che era nero era nero, oggi c’è una promiscuità di pensiero che non permette una definizione precisa della realtà. Ecco perché il Papa ci esorta continuamente a essere Chiesa in comunione, Chiesa in uscita, Chiesa evangelica: è uno stimolo a recuperare quella vitalità che Cristo vuole. Nonostante “tutto” questo Dio si fida ancora di noi, è il Dio dell’amore. Però dobbiamo svegliarci da un torpore umano per essere in grado di capire il bisogno dell’uomo, della Terra, di questa casa di tutti, e di lasciare speranza al futuro delle nuove generazioni, che trovino anche loro quanto il Signore ha dato e che l’uomo ha il dovere di fortificare e non disperdere.

Anche il ruolo del vescovo è cambiato, in questi anni.

A febbraio compirò venticinque anni di episcopato. Ho cominciato con Tricarico, con quelle comunità accoglienti per le quali la figura del vescovo era vista come un padre che conosceva e si faceva conoscere. Man mano sono nate diverse difficoltà, per un pensiero imperante, per un atteggiamento secondo il quale il mondo va per conto suo… e meno facilmente si sente l’esigenza di questo bene che alla Chiesa spetta di portare. Ma siamo noi che dobbiamo svegliarci, essere capaci della missione alla quale lui ci ha chiamati. Sono convinto che, nelle speranze dei giovani qualcosa realmente cambi, per una conversione radicale che anche loro devono sperimentare nell’amore di Cristo.

Ecco, fra un po’ il tuo servizio all’interno della Chiesa dovrà finire. Umanamente come senti di vivere questo passaggio?

Prepararsi gradualmente, avere quel tempo da dedicare alla riflessione e alla preghiera, ritrovare più tempo per se stessi e in una condizione che è fatta di minor responsabilità diretta ma anche della propria disponibilità, forte di un’esperienza e di una maturità portata dagli anni. Io penso che potrò essere operante oggi nel silenzio, nella preghiera e nella riflessione, ancora più di quanto con l’attività ho potuto compiere, perché la speranza più grande è quella di maturare ancora, soprattutto nella fede.

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